FARSI UN’IDEA
Shared decision making
La evidence-based medicine (EBM) richiede, ai fini di una sua corretta applicazione, che la conoscenza prodotta dalla ricerca clinica venga adattata al caso clinico specifico. Un meccanismo che non può prescindere da una relazione positiva tra medico e paziente, che tenga conto delle priorità di entrambi e preveda la condivisione reciproca delle proprie conoscenze ed esperienze personali. “Senza un processo decisionale condiviso, la EBM può trasformarsi in una tirannia delle evidenze”, scrivevano Tammy Hoffmann e Chris Del Mar – del Centre for Research in Evidence-Based Practice della Bond University – e Victor Montori – della Knowledge and Evaluation Research Unit della Mayo Clinic di Rochester – in una viewpoint pubblicata nel 2014 sul BMJ. Tuttavia, l’evoluzione dei concetti di shared decision making (SDM) e di EBM è avvenuta per lo più su binari paralleli, con rari momenti di incontro ed evidenti difficoltà di implementazione delle prove nella pratica clinica. Da un lato, il focus sulle evidenze sollecitato dalla EBM ha determinato un certo disinteresse da parte del mondo della ricerca nei confronti degli aspetti comunicativi che caratterizzano la relazione tra medico e paziente, dall’altro la scarsa attenzione allo SDM da parte dei percorsi formativi dei clinici ha contribuito ad una sorta di incomunicabilità tra le due comunità accademiche. Farsi un’idea del rapporto tra SHARED DECISION MAKING e EVIDENCE BASED-MEDICINE [Accedi all’articolo di Hoffman, Del Mar e Montori]
In estrema sintesi, lo SDM si basa sul coinvolgimento del paziente nelle decisioni riguardanti la sua salute. Un processo che richiede che il medico prenda in considerazione le necessità e le priorità della persona che a lui si rivolge e condivida con questa le informazioni presenti in letteratura sulle diverse opzioni terapeutiche e sui potenziali rischi e benefici a queste associati. Secondo Hoffmann e colleghi, lo SDM “consiste nell’intersezione tra competenze comunicative e medicina basata sulle evidenze, nell’ottica di un’esperienza di cura positiva”. Un modus operandi che, come sottolineato da Mack Lipkin – della New York University School of Medicine – in un commento a quattro studi pubblicati sul tema sul JAMA Internal Medicine nel 2013, è risultato efficace sia da un punto di vista clinico, in termini di migliori scelte dei pazienti, prognosi e aderenza ai trattamenti, che sistemico, in merito, ad esempio, alla durata dei ricoveri e alle decisioni relative al fine vita. Farsi un’idea dello SHARED DECISION MAKING [Accedi agli articoli pubblicati sul JAMA Internal Medicine: Fowler, Gerstein e Berry sulla percezione dei pazienti in merito ai processi decisionali Krumholz et al. sulle preferenze dei pazienti con infarto miocardico acuto Tak, Ruhnke e Meltzer sulla relazione tra coinvolgimento dei pazienti e durata e costi dei ricoveri ospedalieri Wachterman et al. sul rapporto tra le aspettative dei pazienti in emodialisi e quelle dei loro nefrologi] [Accedi all’articolo di commento di Lipkin] “Una visita efficace – scrive Richard Lehman, dell’University of Birmingham, nell’introduzione a una serie di articoli sul tema della medicina condivisa in corso di pubblicazione sul JAMA Internal Medicine – dovrebbe sempre cominciare con una diagnosi delle preferenze della persona, basata su una comprensione comune delle ragioni che l’hanno spinta a chiedere aiuto e degli obiettivi che considera più importanti”. Ampliando il discorso, tuttavia, le priorità del paziente non dovrebbero guidare solo il processo diagnostico e terapeutico, ma anche la produzione stessa della conoscenza. Infatti, il modello della ricerca tradizionale, guidata dai progressi accademici o dallo sviluppo di farmaci e dispositivi per fini commerciali, produce spesso informazioni difficilmente applicabili alla pratica clinica. Al contrario, il coinvolgimento dei pazienti e dei loro familiari già in fase di ricerca potrebbe portare a risultati più adattabili alle loro necessità. Agendo in questo senso, ad esempio, nel Regno Unito la James Lind Alliance ha sviluppato da qualche anno un sistema di allocazione dei finanziamenti che tiene conto delle ipotesi sperimentali più rilevanti per i pazienti.
Farsi un’idea del concetto di MEDICINA CONDIVISA [Accedi agli articoli della serie di JAMA Internal Medicine [Lehman sulla condivisione come aspetto fondamentale per il futuro della medicina Hoffmann e Straus sulle strategie di condivisione della conoscenza]
Tuttavia, secondo Lehman, sarebbe già utile rendere realmente accessibili le conoscenze esistenti. La maggior parte delle evidenze scientifiche che guidano le decisioni in ambito medico deriva infatti dai trial clinici, i quali sono spesso strutturati in modo da produrre informazioni difficilmente utilizzabili in contesti di vita reale. Una soluzione, seppur parziale, a questo problema sarebbe quella di rendere pubblici i dati delle sperimentazioni cliniche, spesso inaccessibili in quanto proprietà delle aziende o delle istituzioni che finanziano gli studi. In alternativa, si potrebbero sviluppare delle linee guida che obblighino i ricercatori a fornire le informazioni relative a parametri specifici. In questo senso un esempio internazionale è rappresentato dalla guida TIDier (Template for Intervention Description and Replication), il cui obiettivo è quello di stimolare gli autori dei trial a fornire informazioni dettagliate riguardo fattori utili alla pratica clinica, quali la durata e l’intensità dell’intervento, la procedura sperimentale e la metodologia utilizzata. Infine, secondo Tammy Hoffmann e Sharon Staus – ricercatrice dell’University of Toronto – autrici di uno degli articoli della serie del JAMA Internal Medicine, un modo ulteriore per favorire la trasmissione della conoscenza sarebbe quello di realizzare nuove tipologie di revisioni sistematiche, come le rapid reviews o le living systematic reviews, strutturate in modo da semplificare la lettura dei dati e favorire un loro continuo aggiornamento. Farsi un’idea dei nuovi STRUMENTI DI SINTESI DELLE EVIDENZE [Rapid reviews: lo studio di Tricco et al.] [Living systematic reviews: lo studio di Elliot et al.]
Per quanto un’adeguata produzione ed elaborazione della conoscenza siano elementi fondamentali, essi non rappresentano tuttavia gli unici fattori coinvolti in un processo decisionale condiviso. È necessario, ad esempio, che i medici padroneggino competenze comunicative, diagnostiche e di ascolto. “Senza queste le informazioni possono essere fraintese da entrambe le parti”, scrive Lehman. Al momento però lo sviluppo e la condivisione di queste abilità non sono in alcun modo supportati. Da un lato, la formazione professionale continua non prevede interventi finalizzati a migliorare le capacità diagnostiche e di comunicazione con il paziente, dall’altro la ricerca spesso trascura questi aspetti. I clinici dovrebbero invece essere in grado di instaurare una relazione aperta e positiva con le persone che a loro si rivolgono per chiedere aiuto e trasmettere a queste le informazioni necessarie per prendere una decisione consapevole e adatta alle loro priorità ed esigenze.
Anche per questi motivi l’implementazione dello SDM nella pratica clinica è avvenuta, fino a questo momento, molto lentamente. Nel 2010 la Health Foundation ha quindi di istituire il programma MAGIC (Making Good Decisions in Collaboration), finalizzato all’identificazione delle strategie migliori per favorire l’accettazione di questo approccio nei contesti di assistenza sanitaria di base e specialistica. Dai risultati sono emersi alcuni elementi critici, relativi soprattutto ad attitudini e atteggiamenti impliciti dei medici. Ad esempio, in molti sostengono di coinvolgere già i loro pazienti nel processo decisionale, identificando erroneamente questo approccio con la loro pratica clinica di routine. Altri lamentano invece la mancanza di strumenti utili a favorire la condivisione delle informazioni e a valutare l’esito di tali strategie. “È necessario incoraggiare un cambiamento culturale”, scrivono Natalia Joseph-Williams – della division of Population Medicine dell’University of Cardiff – e colleghi in un articolo pubblicato recentemente sul BMJ. “Un atteggiamento realmente ricettivo sarà possibile solo quando lo SDM sarà visto come una pratica consueta e una componente fondamentale di un processo di cura efficace, sicuro e compassionevole”.
Farsi un’idea dei PROBLEMI DI IMPLEMENTAZIONE DELLO SHARED DECISION MAKING [Accedi all’articolo di Joseph-Williams et al. sui risultati emersi dal programma MAGIC]
Secondo gli autori sarà inoltre fondamentale integrare questo approccio nel percorso formativo delle facoltà di medicina e infermieristica e, allo stesso tempo, favorire la partecipazione attiva dei pazienti e la loro alfabetizzazione sanitaria. Inoltre, concludono Joseph-Williams e colleghi, “bisognerà evitare una che il processo finisca per essere standardizzato”. Infatti, ogni processo decisionale è diverso dagli altri, a seconda delle persone coinvolte, delle loro preferenze e del tipo di scelta che deve essere effettuata. “Non necessariamente, lo SDM deve risultare in un completo accordo tra medico e paziente. Si tratta piuttosto di far convergere le competenze di entrambi e, in relazione alle diverse prospettive, dare il giusto peso alle diverse opzioni”.
A cura di Fabio Ambrosino