2 Ottobre, 2018|NEWSLETTER BVS-P|

FARSI UN’IDEA

Umanizzazione delle cure

Riaffermare la centralità del paziente – prima ancora, del cittadino – nel servizio sanitario sottolinea con forza la necessità di cure più attente alla persona e alla sua soddisfazione. “L’umanizzazione nella organizzazione sanitaria – leggiamo nella Direttiva generale per l’attività amministrativa e la gestione pubblicata dal Ministero della salute nel 2015 – garantisce il recupero della centralità del paziente facendosi carico non solo degli aspetti fisici della malattia, ma anche di quelli psicologici relazionali e sociali. Il concetto di centralità del paziente nei servizi sanitari è stato, infatti, più volte affermato in questi anni nella normativa internazionale, nazionale, regionale e i diritti dei pazienti sono la meta prioritaria dei singoli paesi e delle associazioni di pazienti.”

Cosa si intende, realmente, con l’espressione “umanizzazione dell’organizzazione sanitaria e delle cure”? “L’umanizzazione delle cure è l’attenzione alla persona nella sua totalità, fatta di bisogni organici, psicologici e relazionali” leggiamo sul sito del Ministero, mentre AGENAS scrive che “per umanizzazione s’intende quel processo in cui si deve porre il malato al centro della cura; questo concetto segna il passaggio da una concezione del malato come mero portatore di una patologia ad una come persona con i suoi sentimenti, le sue conoscenze, le sue credenze rispetto al proprio stato di salute.” Definizioni che lasciano un ampio margine di interpretazione e, forse, di adattamento di differenti programmi agli obiettivi istituzionali.

Il Patto per la salute del Ministero prevede la predisposizione di un “programma annuale di umanizzazione delle cure”, che comprenda la definizione di almeno un’attività progettuale in tema di formazione del personale e una riguardante il cambiamento organizzativo, indirizzato prioritariamente alle seguenti aree assistenziali: Area critica, Pediatria, Comunicazione, Oncologia, Assistenza domiciliare.

La prima componente dell’umanizzazione è quella della relazione tra il malato – o, più in generale, l’utente del servizio sanitario – e il personale coinvolto nell’assistenza. L’American Board of Internal Medicine è stata una delle prime istituzioni che, a livello internazionale, ha ufficialmente riconosciuto la validità scientifica del cosiddetto “Modello biopsicosociale” delle malattie e quindi della necessità di fornire al paziente un’assistenza globale e centrata sulla persona. Nel rapporto del Board approvato nel 1977 e pubblicato due anni dopo, le abilità interpersonali generali e quelle comunicative erano definite parti integranti della professionalità medica in quanto indispensabili per svolgere in modo ottimale le funzioni richieste a un medico o a un infermiere. Il rapporto, però, specifica in modo esplicito che le competenze interpersonali devono tradursi nello sviluppo di una relazione che ispiri fiducia al paziente e gli trasmetta la partecipazione e il sostegno emotivo del medico, relazione all’interno della quale il medico eviti di esprimere giudizi ma sappia comunicare, dialogando, nei modi “giusti”. Tra le abilità comunicative, ascoltare e far parlare il malato o l’utente sono una componente essenziale. Questi argomenti sono sempre più dibattuti, anche grazie alla “contaminazione” tra medicina basata sulle prove e medicina basata sulla narrazione. Ne ha parlato anche un post nei blog del BMJ che discuteva gli argomenti utilizzati da un medico statunitense, Danielle Ofri, in un libro uscito di recente e commentato anche dalla rivista dell’Ordine dei Medici di Torino: “Le basi della buona comunicazione, sostiene Ofri, sono un imperativo a prescindere dal quale si rischia di compromettere lo strumento di cura più importante: ‘il contatto con la persona malata che ci è di fronte’. La recensione del BMJ sottolinea – e lo riportiamo testualmente – come il dialogo con il paziente sia il più antico tra i ferri del mestiere, importante oggi come lo era duecento anni fa, il più economico tra i rimedi, privo di effetti collaterali, essenziale quanto gli antibiotici e i raggi X. Con la differenza – prosegue il commento di Torino Medica – che non è stato aggiornato, come invece la maggior parte dei settori più attraenti (ritenuti più significativi o semplicemente più alla moda). Nelle facoltà di Medicina si insegna che la storia clinica del paziente rappresenta dal 70 all’80% del percorso diagnostico, ma la formazione del medico non dà spazio all’arte dell’ascolto. “Uno studio condotto in una clinica svizzera su un campione di 335 visite mostra che, se si pone la prima domanda senza poi interrompere, il tempo medio della risposta è di 92 secondi (e non di ore, come notoriamente temuto). Altra regola aurea è semplificare il linguaggio. Sul fronte di ciò che recepisce il paziente, infatti, secondo un altro studio riportato dal testo, meno della metà delle persone dimesse da ricovero ospedaliero conosceva la propria diagnosi; in un altro studio ancora, risulta che meno di un quinto dei pazienti ricoverati sa il nome del medico curante.”

Dobbiamo riportare la comunicazione in primo piano rendendola più umana, raccomanda il commento sul BMJ.

FARSI UN’IDEA DELLA UMANIZZAZIONE DEL DIALOGO TRA MALATO E MEDICO

Sul modello biopsicosociale:

• Engel GL. The biopsychosocial model and medical education: who are to be the teachers?.  New Engl J Med 1982;306:802-5.
• Engel GL. The need for a new medical model: a challenge for biomedicine. Science 1977;196(4286):129-36.

Inoltre:

 American Board of Internal Medicine. Clinical Competence in Internal Medicine. Ann Intern Med. 1979;90:402–11.
• What patients say, what doctors hear. L’articolo sul blog del BMJ.

Se torniamo invece alla necessità di un cambiamento organizzativo, può essere interessante iniziare dal ripensamento degli spazi assistenziali e di cura, nella consapevolezza che gli aspetti legati alla progettazione degli spazi abbiano grande importanza per i pazienti e i loro familiari. È utile consultare un lavoro pubblicato in modalità open access in esito alla ricerca L’umanizzazione degli spazi di cura svolta, per incarico del Ministero della Salute, dal Centro Interuniversitario di Ricerca TESIS dell’Università di Firenze e dal Dipartimento DINSE del Politecnico di Torino. L’obiettivo dello studio era sistematizzare in forma organica il quadro di riferimento per la progettazione degli spazi di cura sotto il profilo dell’umanizzazione, considerando come prioritarie le esigenze di benessere psico-socio-fisico degli utenti. La ricerca italiana è stata sviluppata nel solco di alcune importanti iniziative internazionali, come quella del National Health Service Estate denominata Better Health Buildings ed il programma Enhancing the Healing Environment promosso dal King’s Fund in Gran Bretagna.

Della disumanizzazione degli spazi e delle dinamiche ospedaliere ha scritto recentemente un altro opinionista del BMJ, Patricia Cantley, raccontando la propria storia di sorella di un malato di distrofia muscolare. Nel post, descrive una situazione completamente condizionata dalle attività di routine quotidiana dettate da un’organizzazione ospedaliera che non teneva in alcuna considerazione le abitudini e le preferenze dei pazienti. Il quadro tracciato dalla Cantley è indicativo di flussi di lavoro programmati a solo ed esclusivo beneficio della struttura e del personale sanitario, senza del resto che questa scelta sia sostenuta da evidenze robuste in termini di efficacia e di sicurezza.

La necessità di implementare un approccio psico-sociale nell’assistenza ha investito precocemente l’ambito oncologico. In questa area, è esemplare l’esperienza del progetto HUCARE (Humanization of CAncer caRE) il cui scopo principale è implementare nei reparti oncologici interventi Evidence-Based Medicine (EBM) al fine di migliorare lo stato psicosociale dei pazienti e delle loro famiglie. È stato avviato nel 2008, ha coinvolto più di 30 centri oncologici fra ospedali e istituti di ricerca e oltre 700 professionisti, medici, infermieri, psicologi e altri ricercatori. Ai centri partecipanti il progetto ha consentito di intraprendere un processo di miglioramento verso l’umanizzazione dell’assistenza, ponendo al centro i bisogni informativi e psicosociali del paziente. I nostri risultati dimostrano che gli interventi basati sull’evidenza per migliorare la cura psicosociale delle persone con cancro possono essere implementati in una vasta gamma di reparti di oncologia. Ciò richiede il coinvolgimento e la motivazione dell’intero staff del reparto, il supporto di un team di esperti e la promozione da parte dei responsabili delle politiche.

FARSI UN’IDEA DELLA UMANIZZAZIONE DEGLI SPAZI DI CURA

• Direttiva generale per l’attività amministrativa e la gestione.
• Del Nord R, Marino D, Peretti G. Humanization of care spaces: a research developed for the Italian Ministry of Health. TECHNE-Journal of Technology for Architecture and Environment. 2015(9):224-9.
 La collezione di articoli curata dal Nuffield Trust del National Health Service inglese.
 Gli articoli e i documenti suggeriti dal King’s Fund nell’ambito del progetto Enhancing the Healing Environment.
• Cantley P. We must remember how scary hospitals can be for our patients. BMJ Blogs 2018, 14 marzo.
 Passalacqua R, Annunziata MA, Borreani C, Diodati F, Isa L, Saleri J, Verusio C, Caminiti C. Feasibility of a quality improvement strategy integrating psychosocial care into 28 medical cancer centers (HuCare project). Supportive Care in Cancer. 2016 Jan 1;24(1):147-55.

Nonostante sia indispensabile curare gli aspetti che un tempo erano definiti “alberghieri”, è almeno altrettanto opportuno che la degenza non si prolunghi oltre i tempi strettamente necessari. La dimissione precoce dei pazienti: sembra non avere conseguenze negative sull’esito delle cure e può migliorare la soddisfazione del malato ed è stata oggetto di una recente revisione sistematica da parte di un gruppo della Cochrane. Un modo per affrontare la domanda di letti ospedalieri è ridurre la durata del ricovero in ospedale dimettendo le persone precocemente per proseguire l’assistenza sanitaria a domicilio e gli autori hanno passato in rassegna in modo sistematico la letteratura riguardante gli esiti della dimissione precoce dall’ospedale in favore dell’assistenza domiciliare. Il servizio assistenziale era solitamente garantito da un team di operatori sanitari, composto da medici, infermieri e fisioterapisti. Generalmente, il team riesce ad assolvere alle necessità assistenziali del paziente a domicilio anche nel caso di un’assistenza ospedaliera complessa. L’obiettivo dello studio era valutare l’impatto della dimissione precoce sulla salute del paziente e sui costi del servizio sanitario.

Gli autori della revisione hanno identificato 32 studi che hanno considerato una popolazione complessiva di 4746 pazienti di dodici Paesi. Gli studi valutavano i risultati dei programmi di dimissione precoce in pazienti con diversi tipi di condizioni: malati che avevano sofferto un ictus, pazienti anziani con comorbilità e pazienti sottoposti a intervento chirurgico. Rispetto alle cure ospedaliere, non ci sono differenze rilevanti tra gli esiti dell’assistenza domiciliare e ospedaliera. Le cure al domicilio non hanno neanche un impatto sulla probabilità di un nuovo ricovero ma, in merito ai costi, non si notano evidenze certe di risparmi per il sistema sanitario.

Il confronto tra l’assistenza a casa del malato e in ospedale si estende ovviamente a molti problemi diversi, come per esempio la terapia dialitica. Alcuni studi osservazionali suggeriscono non solo un maggiore gradimento del malato ma anche esiti più soddisfacenti. D’altra parte, il peso sulla famiglia potrebbe aumentare. Una revisione Cochrane non è giunta a conclusioni definitive proprio per la mancanza di evidenze chiare. È un tema, quello della dimissione precoce, comunque controverso che poco si presta a generalizzazioni: esistono studi in molti ambiti diversi e talvolta si hanno delle sorprese che mettono di fronte a “prove” che vanno comunque interpretate. Come nel caso dello studio sulla dimissione precoce dopo frattura dell’anca uscito sul BMJ nel 2015.

Numerosi studi che hanno valutato l’esito dell’assistenza domiciliare nelle persone sottoposte a emodialisi mostrano migliore qualità di vita e sopravvivenza. Il limite di questi studi è di non essere randomizzati: le persone sottoposte a trattamento domiciliare possono essere selezionate in base all’età (più giovani) e alle condizioni di salute (migliore), e pertanto esiste un rischio di distorsione nei risultati delle ricerche. L’emodialisi domiciliare può anche aumentare il “peso” di gestione del trattamento sia per i pazienti sia per le famiglie e può comportare il rischio di complicanze. In generale, non esistono dati sufficienti per giungere a conclusioni certe sugli effetti dell’emodialisi domiciliare vs quella eseguita in un setting ospedaliero.

FARSI UN’IDEA DELLA COMPLESSITA’ DEL TEMA DIMISSIONE PRECOCE 

• Gonçalves-Bradley DC, Iliffe S, Doll HA, Broad J, Gladman J, Langhorne P, Richards SH, Shepperd S. Early discharge hospital at home. Cochrane Database of Systematic Reviews 2017, Issue 6. Art. No.: CD000356. DOI: 10.1002/14651858.CD000356.pub4.
 Palmer SC, Palmer AR, Craig JC, Johnson DW, Stroumza P, Frantzen L, Leal M, Hoischen S, Hegbrant J, Strippoli GFM. Home versus in-centre haemodialysis for end-stage kidney disease. Cochrane Database of Systematic Reviews 2014, Issue 11. Art. No.: CD009535. DOI: 10.1002/14651858.CD009535.pub2.
• Nordström P, Gustafson Y, Michaëlsson K, Nordström A. Length of hospital stay after hip fracture and short term risk of death after discharge: a total cohort study in Sweden. BMJ2015; 350 :h696

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